Galerie Hubert Winter

Shorakapok 22K/215B/5H
Antonio Rovaldi and Michael Höpfner — Flash Art, Marzo. 2009

Antonio Rovaldi in conversazione con Michael Höpfner.

Antonio Rovaldi:
Michael, la prima volta che ho intravisto il tuo lavoro è stato una mattina agli Iscp di Brooklyn, dove eravamo entrambi in residenza lo scorso inverno: la porta del tuo studio era semiaperta sull’area comune del secondo piano e credo di averti chiesto — quella cartolina sulla tua porta con l’immagine di una tenda nera in mezzo a un deserto mi aveva subito incuriosito — dopo aver timidamente bussato, se potevo entrare. Stavi fissando alle pareti dei lunghi fili di lana nera che tendevano dei grossi teli di plastica (come quelli della spazzatura) e avevi appena srotolato e attaccato al muro due grosse fotografie in bianco e nero di un deserto sassoso con delle pietre appuntite coperte da tante magliette, come un cimitero nel bel mezzo del nulla, ma invece di lapidi con dei nomi, quelle sagome bianche e nere su quelle pietre, sembravano dei fantasmi. Eri appena arrivato e il tuo studio, a distanza di poche ore, aveva già l’aspetto di un accampamento provvisorio: quel telo di plastica nera, teso alle estremità del muro, fungeva da tenda, le immagini di quel deserto roccioso sulla parete di sinistra raccontavano il tuo ultimo attraversamento ad alta quota a piedi in un deserto Tibetano e il suono di qualche diapositiva, anch’essa in bianco e nero, si alternava dentro un proiettore lasciato per terra vicino ad un grosso baule da viaggio che avevi trovato su un marciapiede. Tutto era rigorosamente in bianco e nero, come se non volessi far trasparire dalle immagini dei tuoi viaggi e dall’immagine complessiva del tuo studio, nessuna dichiarata emozione o quanto tempo ci avevi messo ad attraversare quegli spazi sterminati. C’era qualcosa di ‘politico’ nel come avevi sistemato i tuoi strumenti di traduzione del paesaggio. È questo che mi ha colpito non appena mi sono orientato nel tuo studio/accampamento: mi chiedevo da quale parte venivi e in che direzione saresti potuto andare e con che tempo, ma soprattutto, mi chiedevo dov’erano finiti tutti i colori, perchè il tuo studio era davvero come desaturato, un po’ come le scarpe da ginnastica che indossavi, nere con una striscia bianca ai lati! “Il tempo sarebbe passato, i vecchi imperi sarebbero crollati e altri, nuovi imperi, li avrebbero soppiantati. Bisognòche i rapporti di classe cambiassero perchè scoprissi che non è la qualità dei beni o la loro utilità che conta, ma il movimento: non dove uno è o quello che ha, ma da dove viene, dove va e a quale velocità ci sta andando”. Ultimamente torno spesso sull’urgenza di queste parole di C.L.R James e mi farebbe piacere sapere cosa suggeriscono a te, soprattutto se ripensiamo al nostro incontro newyorkese, sfociato poi nel progetto perfomativo e poi video di Shorakapok, che ci ha visto camminare insieme per sette ore consecutive per tutta la Broadway, tu senza vedere ed io senza sentire, da Wall Street fino a Inwood Park, là dove finisce l’isola di Manhattan e comincia il paesaggio dell’Hudson River. Shorakapok, ‘The place between the ridges’, così chiamarono gli indiani la punta estrema a nord dell’isola, tracciando da quel punto quella linea lunghissima che è poi è diventata nel tempo la strada più famosa al mondo: la mitica Broadway!

Michael Höepfner:
Ricordo il nostro primo incontro, sembrava quasi un incontro in una tenda nomade! È stato uno di quei rari momenti d’immediata comprensione reciproca che non necessita di lunghe con-versazioni, in un certo senso già sapevamo di condividere lo stesso linguaggio e una certa comune predisposizione per un movimento lento delle e nelle cose. Credo che sia il nostro legame con i “paesaggi” e ciò mi rimanda subito alle tue azioni sul tempo: tu seduto in un angolo del tuo studio, mentre ascoltavi per ore sempre la stessa canzone country e temperavi centinaia di matite o attendevi che un fiammifero da barbecue si bruciasse, uno dopo l’altro, senza parlare a nessuno, essere semplicemente lì, da solo con te stesso a pensare a quanto tempo avresti potuto impiegare ad andare nel grande West americano! Fare arte sui paesaggi non significa necessariamente dover preparare uno zaino … Trovo interessante il tuo riferimento a C.L.R. James, un marxista, noto anche per le sue idee sulla fine del colonialismo. Hai ragione: la riflessione su “da dove veniamo” e perché ci rechiamo in alcuni posti è parte delle rifl essione sulla vita. Sono totalmente d’accordo sul fatto che, quando parliamo di movimento, non si tratti dello spazio, bensì di luoghi, una rac- colta di luoghi che dapprima cerchiamo poi percorriamo e successivamente ricordiamo. Credo che James comprese il movimento più nel senso marxista, inteso come “progredire”, mentre noi, nella nostra passeggiata dal Sud al Nord di Manhattan, siamo andati in un certo senso indietro nel tempo: dal tempo del progresso verso il tempo del vuoto e del silenzio. Credo ancora che non si tratti di un’idea romanticha o di uno stupido sogno ‘back to theroots”: la Broadway era innanzitutto il sentiero che univa due sistemi di vita e di tempo, un territorio prima e un paesaggio poi, dall’accampamento dei Nativi Americani al Forte degli Olandesi. E questo potrebbe essere ancora il legame con James, le diverse nozioni di libertà su un’isola, questo è un altro pensiero affascinante!
AR:
Avevamo deciso che, prima di camminare tutta la Broadway fino alla 215 nord, saremmo andati prima a vedere Inwood Park e la fine di Manhattan, quello spazio che per gli Indiani era uno spartiacque tra i due fiumi, l’Hudson River e in seguito quel-lo che poi è diventato l’Harlem River. Un angolo tra due spigoli. Entrammo nel parco di Inwood dopo aver camminato sulla west side per qualche decina di blocchi e quello spazio di verde ci sembrò ad entrambi cosìstrano e silenzioso, così preistorico, nono-stante fosse alla fine della densa, rumoro-sa, urbana Manhattan; a te venne persino l’idea di accendere un fuoco, forse perchè ti eri per un attimo immedesimato in qualche danza tribale e avevi improvvisamente di-menticato che noi arrivavamo, a differenza degli indiani, non da un fiume su una canoa scavata nel legno, bensì con le scarpe da ginnastica da una città di 215 blocchi, ognu- no abitato da una razza diversa! Decidemmo poi di mettere in pratica quel primo veloce sopralluogo qualche giorno prima di lasciare New York. Partimmo verso le nove del mattino da Wall Street, tu con una benda sugli occhi ed io con delle grosse cuffie antirumore alle orecchie e, camminando per tutta la Broadway, siamo arrivati verso le cinque del pomeriggio nel parco di Inwood filmati da Kaspar, l’austriaco californiano che fumava ininterrottamente il sigaro (il cui fumo poi en- trerà spesso nel video!). Credi di poter tradurre in parole cos’hai provato quando siamo arrivati, dopo 215 blocchi di densa urbanità, nel verde silenzioso del parco e ti sei tolto quella fascia nera dagli occhi? Forse lungo tutto il tragit-to avevi visto in bianco e nero come nelle tue immagini. Eppure non vedevi davvero e ti sei fidato di me e del mio gomito! Perchè io un poco potevo sentire invece, ma era come un suono ovattato, come quando ci si butta in mare da uno scoglio: qualcosa dei rumori del mondo esterno si sente ancora, ma poi il suono sott’acqua diventa un’altra cosa, non proprio silenzio, quanto, piuttosto, uno spazio rotondo dove forse non è necessario pensare…
MH:
L’arrivo mi ha ricordato l’“Enigma dell’Arrivo”. Da un lato, arrivare significa essere finalmente da qualche parte ma significa anche guardare indietro, ricordare posti e volti lungo la via, rimettere insieme dei frammenti; in qualche modo tutto è connesso a luoghi geografici. Quando mi hai tolto la benda nera che mi ha reso cieco per oltre sette ore, ho guardato le grandi rocce a terra che mi ricordavano che questa è Manhattan (non avevo questa sensazione quando siamo partiti da Wall Street). Per me questa passeggiata era una sorta di “traduzione a ritroso”, una camminata nella storia, o forse una fuga immaginaria dalla realtà. E non c’è posto migliore di Wall Street che rappresenta un disastro odierno dei sogni e desideri infranti della realtà attuale. Questo ho pensato quando ci siamo seduti presso il ‘cerchio del fuoco’ degli indiani nella foresta dove si concludeva la nostra lunga camminata. Ci sedemmo, eravamo esausti, Kaspar fumava il suo ennesimo sigaro e tutt’intorno c’era uno strano silenzio e verde e profumo di tabacco. Stando lì seduto realizzai che per tutto il percorso avevamo dovuto condividere la percezione: per me non c’era una sola immagine della città, solo suoni! Era un arrivo senza luoghi e per la prima volta ho pensato allo “spazio” come qualcosa da ricordare. Ci ho pensato diverse volte mentre con la mia mano sini- stra tenevo il tuo gomito, seguendo i tuoi passi e ascoltando il rumore che andava e veniva definendo lo spazio intorno a me. Ricordo che ho rinunciato a capire, ti seguivo e basta, dimenticando tempo e distanza. Ho percorso quei 22 km della Broadway e ciò che restava erano voci, parole, suoni. Ho cercato di ricordarli seduto nel bosco mentre fissavo gli alberi e le rocce scure che infondono a quel luogo un’atmosfera magica. Ricordo anche di aver pensato all’assurdità della performance, te con le orecchie tappate e io con una benda nera sugli occhi, che camminiamo a braccetto. Una coppia assurda in un’assurda città!
AR:
Forse è proprio vero che le mappe ci dicono di più per quello che escludono che non per quello che includono. Come mangiare una banana seduti su una panchina di fianco ad un uomo di bronzo, lo puoi fare solo stando fuori da una mappa! Shorakapok!


Antonio Rovaldi è nato a Parma nel 1975. Vive e lavora tra Milano e New York.
Michael Höpfner è nato a Krems nel 1972. Vive e lavora a Berlino.

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